Racconto che ha partecipato al concorso 'Raccontare il Medioevo' a cura dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo.
“Aiuto, aiuto!! Suor
Isabella, è successo di nuovo!”
Due settimane prima, Anno
Domini 1347, tarda primavera, al principiar dell’estate, nel caldo e umido ospitale
di Santa Croce, situato nel punto più alto e roccioso di Pieve Ligure, borgo della contea di Bogliasco, paese cinto da mura e da fossati che venivano
allagati in caso di assedio.
La casa di Martino era
una delle classiche dimore del Medioevo. Egli era un bambino povero, perciò
abitava in una residenza abbandonata e fatiscente che si trovava alla fine di una
via dimenticata da molti. L'abitazione era composta da due locali divisi da un
muro eroso dal tempo.
Nella stanza c'era un letto
misero e sporco, costituito da una sottile e sciupata coperta di lana bianca
sgualcita e da un materasso rotto, anche
questo del medesimo color panna, ingiallito dal tempo, con la struttura quasi
frantumata che poggiava su uno scricchiolante pavimento in legno. In un angolo
del vano si trovava una finestra dagli inserti di legno scuro e una maniglia antica
rimasta intatta.
Martino trascorreva notti agitate e insonni, in compagnia di
sogni bruschi e violenti nei quali ricordava il padre morto in guerra; aveva
immagini sfocate di lui nelle quali distingueva solamente il suo vestiario:
sotto la casacca
color scarlatto c'erano delle lunghe calze che mettevano in evidenza le parti
virili del corpo.
In quel periodo era
diffusa la peste nera malattia che in alcuni casi estremi portava alla morte. I
sintomi di questa erano: barcollamento,
muco schiumoso, sangue dal naso, lividi, respirazione difficoltosa, tremore,
occhi infiammati, inappetenza, vomito, diarrea emorragica, catarro, convulsioni
e sete intensa.
Un giorno Martino andò
verso il mercatino dei ricchi, sui banchi del quale erano esposti dolci. Si
trovava nei paraggi perché aveva esaurito le poche monete che possedeva e che
aveva guadagnato recitando antiche poesie; per questo cercava di rubare qualche
pagnotta prelibata.
Mentre tornava a casa,
ebbe un forte barcollamento e intravide nel buio una sagoma che immediatamente
scappò via. Non riuscì a capire cosa rappresentasse quella forma confusa, ma,
nonostante ciò, continuò il cammino verso la sua dimora.
Appena solcò la porta
d'entrata, dal suo naso iniziò a scendere
una grande quantità di sangue. Dallo spavento svenne.
La mattina dopo si
accorse di alcuni lividi sul proprio corpo, a quel punto iniziò a preoccuparsi
seriamente.
Quello che non si sapeva
ancora spiegare, però, è che non si trovava nella sua abitazione, bensì in un
luogo ricco di erbe medicinali necessarie a curare i malati.
Due suore si accorsero
che Martino era sveglio e si precipitarono per capire come stava. Egli esitò un
istante prima di parlare, ma dovette per forza chiedere un bicchier d'acqua a
causa la sete irresistibile.
Le suore, di nome
Isabella e Clara, lo posero immediatamente sul comodino che affiancava il
letto. Martino ringraziò annuendo perché oramai aveva perso la sua voce a causa
della gola secca. Quando deglutì l'acqua
fresca, ebbe il coraggio di parlare sussurrando debolmente:
"Dove mi
trovo?"
Suor Clara, accarezzando
la fronte del bambino indifeso, rispose: "Tranquillo, qui ci prenderemo
cura di te".
Il bambino, non ancora
del tutto consapevole, poggiò la testa sul cuscino.
I giorni passarono, lui
si sentiva sempre meglio, strinse amicizia con una bambina che aveva il suo
stesso problema, che disse di chiamarsi Maria.
Con lei passava la
maggior parte del suo tempo, giocavano a giândolin, un trottolino che si
faceva girare con una sottile funicella.
Ogni dì Martino riceveva
la sua dose di erbe curative che contribuivano alla sua guarigione.
Ormai era la terza ora
dopo il vespro ed egli era insonne, l' unica cosa che si sentiva erano i passi
leggeri delle suore che, essendo affaticate dalla frustrante giornata svolta,
andavano a riposare.
Il bambino diede un
ultimo sguardo allo spiraglio di luce che giungeva nella sua camera. Ad un
tratto tutto si spense.
Non appena fece un
tentativo di chiudere gli occhi, una voce a lui sospetta proferì: "Martino
io non ti svelerò la mia identità, ma solo il motivo del perché sto comunicando con te. Vedi, devi
sapere che questo è il luogo nel quale sono venuto a mancare a causa di una
persona di questo ospitale di cui non ti dirò il nome".
Martino, anche se
spaventato, ignorò la voce e crollò in un sonno profondo.
Il giorno seguente si
scaraventò giù dal letto con un balzo e si avvicinò alla sua compagna per
svegliarla e per annunciarle
l’accaduto.
Maria era molto bella,
aveva un viso candido e bianco come la neve, i suoi occhi erano azzurri e le lunghe ciglia rendevano il suo volto dolce e
buono; i suoi capelli biondi come il grano erano quasi sempre raccolti in una
treccia che lei disfaceva e rimodellava accuratamente ogni giorno. Era magra e
alta quasi quanto Martino.
Le diede un colpo sulla
spalla e lei si svegliò urlando dallo spavento.
Martino tranquillizzò
Maria e poi le sussurrò: “Ti andrebbe di fare la colazione?”
Lei emise un semplice
"sì". Si alzarono per prendere
il corridoio che portava alla cucina; quando all’improvviso comparve davanti a
loro suor Clara che urlò: “Dove pensate di andare?!”
“A fare colazione”
risposero i due bambini.
“No! Andate a riposare, ve
la porterò io” concluse sbrigativamente il discorso e si incamminò
frettolosamente verso la sala. I due
bambini si diressero verso la camera ridendo della goffa e strana andatura
della suora.
La mattina passò
velocemente e il pomeriggio era alle
porte, era la nona ora quando suor Isabella andò a chiamare Martino e Maria.
Si radunarono nel cortile
circostante all’ospitale. C’erano numerose persone in festa, si respirava
un'autentica aria d'allegria; Martino e Maria erano entusiasti all’idea di
passare tutto il pomeriggio in quel luogo.
Per tutto il giorno
mangiarono e giocarono a giochi divertenti e
la sera si avvicinò velocemente.
Mentre Martino percorreva
la strada che conduceva all’entrata,
intravide nuovamente la medesima ombra che aveva notato il giorno prima
della sua entrata nell’ospitale.
Quella notte Martino era
molto agitato e non riusciva a togliersi dalla
testa una canzoncina che ricordava vagamente, pensava fosse quella che
gli cantava sua mamma quando era piccolo…ma non era sicuro…
“Beuga
bugagna,
Martin o
l’è andaeto in Spagna
A carregà di
foenti
Fra piccìn
e grendi
I grendi da
maià
E i piccìn
da demmoà!”
Martino era esausto, non
riusciva a svegliarsi.
All’alba egli andò correndo, molto sudato, nella camera di suor Clara
urlando a squarciagola ciò che la sera aveva udito e temuto. La monaca,
preoccupata, gli toccò la fronte calda e sudata; lo prese di corsa in braccio e
lo portò fino al letto dove lo coprì con un
telo molto sottile di colore bianco e lo rinfrescò con bende bagnate.
Martino continuò nel suo
racconto di ciò che aveva sentito, ma suor Clara non ne voleva sapere e lo
zittiva.
Martino stava riposando
in una camera contigua a quella dove risiedeva un malato di peste. Quando suor
Clara si voltò per afferrare un altro panno bagnato per il bambino, fece in tempo a vedere il paziente squarciato
nell’addome.
Sul soffitto una filastrocca
scritta con il sangue…
“Beuga
bugagna,
Martin o
l’è andaeto in Spagna
A carregà di
foenti
Fra piccìn
e grendi
I grendi
da maià
E i piccìn
da demmoà!”
Impossibile, pensò suor
Clara, il piccolo Martino aveva ragione, non erano allucinazioni; nell’ospitale
era presente qualcosa di sovrannaturale.
Clara, senza pensarci due
volte, si mise a correre nel corridoio per avvisare suor Isabella e, in preda
al panico, iniziò ad urlare.
Martino si alzò di
soprassalto. Era confuso e si accorse che la scritta sul muro era la stessa
canzoncina che la notte aveva in testa; subito gli venne in mente la sua cara
amica Maria e si precipitò verso la sua
stanza, ma lei era scomparsa.
Martino non avrebbe mai
accettato la morte o il rapimento della sua amica, così si non perse d’animo e
iniziò a pensare ai vari posti dove
poteva essersi rifugiata. Il primo luogo
che gli venne in mente fu il ripostiglio dove per la prima volta erano andati a
giocare insieme; subito vi si precipitò e, fortunatamente, la ritrovò accovacciata che piangeva disperatamente.
Martino rimase a
guardare la scena per un istante con occhi di commozione, poi si precipitò a
stringerla in un caloroso e tenero abbraccio .
Maria
all’inizio si ribellò, ma poi cedette e gli donò un piccolo bacio sulla morbida
guancia.
Martino
divenne leggermente rosso dalla vergogna e
Maria scappò via.
Nel
frattempo suor Clara e suor Isabella, mentre piangevano, trasportavano i cadaveri fuori dall’edificio. Nel
pomeriggio iniziarono le indagini e interrogarono Martino.
Egli
cercò di spiegare alle suore la sagoma che intravedeva e le voci notturne
minacciose che udiva.
Quella
sera rimase da solo in camera mentre le suore ripulivano il muro dalle macchie
di sangue e Maria già dormiva accanto alla
sua piccola bügatta, una bambola di pezza.
Martino
stava per addormentarsi, ma ad un certo punto la finestra si spalancò facendo svolazzare le
leggere tende gialle.
Si
voltò per andare a letto e sentì quella voce che sussurrò:
“MARTINO,
SONO SULLE SCALE…MARTINO, SONO SOTTO IL LETTO…. CONTA CON ME SINO A CINQUE E
SENTIRAI UN URLO TREMENDO. QUALCUNO, AHIME’, MORIRA'…”
All’inizio
Martino pensò che la persona indicata fosse Maria e, quindi, si infilò nel suo
letto e la strinse forte al petto.
Poi
la voce riprese a parlare: “1…2…3..4.5”
Martino
udì un urlo potentissimo seguito da un sussulto, non era Maria, allora di chi
si trattava?
La
voce si interruppe con una grande risata maligna.
Il
bambino, spaventatissimo, percorse il corridoio per andare ad avvisare le due
suore, spalancò la porta e trovò suor Isabella piangere sul cadavere della sua
cara consorella. Martino sussurrò con un
filo di voce ormai quasi esaurito dallo spavento e dai singhiozzi: “ F-f-orse è
c-colpa mia io sapevo, io sentivo quella
voce che mi diceva …che qualcuno sarebbe morto…” Non ebbe il coraggio di andare
avanti e scoppiò nuovamente in un pianto doloroso.
Il
giorno seguente Maria si svegliò, ma non vide al suo fianco il suo amico;
pensava fosse stato ucciso dall’assassino che si aggirava nell’ospitale, però
fece ugualmente il tentativo di andare a cercarlo.
Nel
ritrovarlo, conobbe pure l’amara verità; ella chiese conferma a Martino di ciò
che in cuor suo immaginava e lui rispose con un cenno sconsolato: “Sì”
Maria
era sbigottita, non ci poteva credere e il tutto si concluse con un abbraccio
dei due per consolarsi l’un l’altro.
I
giorni e le notti passavano velocemente anche se tutti sentivano la mancanza di
suor Clara. Suor Isabella passava le sue giornate ad esaminare la filastrocca
che l’assassino aveva scritto sul muro.
Fino a che,
una mattina, ella svegliandosi di soprassalto, si diresse come una furia
verso la camera di Martino e gli riferì che la notte precedente aveva sognato
un uomo che ai suoi occhi pareva brutto, selvaggio, ignobile, bugiardo e ladro
di povere anime; ricordava che nel sogno egli era venuto per uccidere e
minacciare persone indifese e che ad un
tratto le era parso di vedere la traduzione in volgare italiano dell’orribile
scritta sul muro:
“Beuga bugagna, Martino è andato in Spagna a caricar
fanciulli fra piccini e grandi, i grandi da maritare e i piccini da far
giocare…”
Dopo
ciò,
suor Isabella assunse un’aria poco felice e molto preoccupata…: “ Martino, non
posso più tenerti qui, se le minacce e la scritta sono veramente riferite a te,
come crediamo, tu devi andare via, il più lontano possibile. Non posso permettere
che il mio ospitale e la vita delle persone qui ricoverate siano messi a
repentaglio… non vorrei cacciarti, ma è ciò che devo fare.Se tu rimani qui,
molti dei pazienti morirebbero e l’ospitale
perderebbe importanza. Quando tu arrivasti qui, avevi nove anni, di tempo ne è
passato, guardati, hai già sedici anni e ti abbiamo guarito insieme a Maria,
che dovrà rimanere qui ancora un po’ per sicurezza. Sono sicura che te la
caverai perfettamente anche da solo”. Dalla guancia della suora scivolò una
lacrima.
Martino
era perplesso, ma, nonostante ciò, fece continuare la suora che continuò a
spiegargli le stesse cose ancora per un po’, poi si alzò e con passo deciso si
incamminò verso la finestra e osservò il paese da lontano: “Dovrò uscire là
fuori da solo…Cosa farei senza il vostro aiuto? Se morissi?! E poi Maria…” scoppiò in lacrime che lo lasciarono senza
parole per tutto il giorno.
Maria
non capiva perché non volesse giocare o parlare con lei e ogni volta che
cercava di avvicinarsi per parlargli il
coraggio scompariva e la timidezza si faceva avanti sconfiggendola.
Martino
non chiuse occhio per tutta la notte successiva e alla fine decise che sarebbe
stato meglio lasciare l’ospitale; andò
in punta di piedi verso l’armadio e
raccolse i suoi abiti che mise nella propria sacca; prima di uscire, però, non
dimenticò di dare un leggero bacio sulla fronte di Maria.
Uscì
dalla camera e, di seguito, si incamminò verso il paese, raggiunse la casa
abbandonata e si sistemò assonnato nel
suo ormai infreddolito letto.
Per
qualche anno Martino continuò a condurre una vita di lavoro e fatiche, fino a
che un giorno camminando per le vie del paese intravide quello che gli pareva
fosse il viso candido della dolce Maria… avrebbe voluto correrle incontro e
abbracciarla forte, ma erano passati così tanti anni.. chissà se si ricordava
di lui o se l’avesse mai perdonato per averla abbondata con un solo bacio sulla
fronte mentre dormiva.
Era
proprio una donna bellissima, con quei suoi occhi celesti e la sua pelle rosea,
i lunghi capelli che le ricadevano sul
petto come nastri di seta; aveva un bellissimo vestito azzurro lungo fino ai
piedi, i suoi passi erano leggeri ed il suo sorriso divino.
Il
giorno seguente rimase appostato nel medesimo punto in cui l’aveva avvistata,
finché gli parve di vederla in lontananza. A quel punto si alzò e cominciò a
correrle incontro, spalancò le braccia e un minuto dopo lei era già lì,
abbracciata a lui…
Martino
pensava che Maria non volesse vederlo né parlare con lui, ma, al contrario, lei
stava contraccambiando molto volentieri il suo dolce abbraccio.
Dopo
quel giorno Martino e Maria non erano solo più amici, ma una coppia felice.
Al
matrimonio Maria era stupenda, indossava un abito ereditato dalla sua mamma,
non era bianco, bensì verde e aveva
una piccola coroncina di fiori colorati e profumati sulla sua testa, aveva i
capelli raccolti in un muccio di trecce più o meno grandi.
Un
piccolo batuffolo di nome Marcello crebbe alla sola presenza del padre. Maria,
infatti, era morta di parto.
All’età
di dieci anni Marcello perse anche il padre a causa del tifo; rimase completamente senza forze e disperato. Si ammalò di peste, pertanto fu destinato alle cure dell’ospitale di Santa
Croce; a curarlo c’erano la vecchia suora Isabella e una giovincella aiutante, suor
Anita.
Le
due suore aiutarono per molto tempo Marcello, ma una notte anche lui iniziò a
sentire una voce sospetta…
Fonti utilizzate:
AA.VV., La
Liguria paese per paese, Voll. III e IV, Guido Mondani Editore, Genova,
1984
Ferrando Ivana, I
giochi a Genova, Sagep Editrice, Genova, 1969
-Dolcino Michelangelo, I misteri a Genova, Pirella Editore, Genova, 1976
Alcuni numeri della rivista Focus Storia
Ricerche di storia prodotte nell’anno scolastico 2012-2013
Sito http://www.storiamedievale.net