venerdì 23 maggio 2014

Martino e la voce sospetta

Racconto che ha partecipato al concorso 'Raccontare il Medioevo' a cura dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo.



“Aiuto, aiuto!! Suor Isabella, è successo di nuovo!”





Due settimane prima, Anno Domini 1347, tarda primavera, al principiar dell’estate, nel caldo e umido ospitale di Santa Croce, situato nel punto più alto e roccioso di Pieve Ligure,  borgo della contea di Bogliasco, paese  cinto da mura e da fossati che venivano allagati in caso di assedio.

La casa di Martino era una delle classiche dimore del Medioevo. Egli era un bambino povero, perciò abitava in una residenza abbandonata e fatiscente che si trovava alla fine di una via dimenticata da molti. L'abitazione era composta da due locali divisi da un muro eroso dal tempo.

Nella stanza c'era un letto misero e sporco, costituito da una sottile e sciupata coperta di lana bianca sgualcita e da un  materasso rotto, anche questo del medesimo color panna, ingiallito dal tempo, con la struttura quasi frantumata che poggiava su uno scricchiolante pavimento in legno. In un angolo del vano si trovava una finestra dagli inserti di legno scuro e una maniglia antica rimasta intatta.

Martino trascorreva  notti agitate e insonni, in compagnia di sogni bruschi e violenti nei quali ricordava il padre morto in guerra; aveva immagini sfocate di lui nelle quali distingueva solamente il suo vestiario: sotto la casacca color scarlatto c'erano delle lunghe calze che mettevano in evidenza le parti virili del corpo.

In quel periodo era diffusa la peste nera malattia che in alcuni casi estremi portava alla morte. I sintomi di  questa erano: barcollamento, muco schiumoso, sangue dal naso, lividi, respirazione difficoltosa, tremore, occhi infiammati, inappetenza, vomito, diarrea emorragica, catarro, convulsioni e sete intensa.

Un giorno Martino andò verso il mercatino dei ricchi, sui banchi del quale erano esposti dolci. Si trovava nei paraggi perché aveva esaurito le poche monete che possedeva e che aveva guadagnato recitando antiche poesie; per questo cercava di rubare qualche pagnotta prelibata.

Mentre tornava a casa, ebbe un forte barcollamento e intravide nel buio una sagoma che immediatamente scappò via. Non riuscì a capire cosa rappresentasse quella forma confusa, ma, nonostante ciò, continuò il cammino verso la sua dimora.

Appena solcò la porta d'entrata,  dal suo naso iniziò a scendere una grande quantità di sangue. Dallo spavento svenne.

La mattina dopo si accorse di alcuni lividi sul proprio corpo, a quel punto iniziò a preoccuparsi seriamente.

Quello che non si sapeva ancora spiegare, però, è che non si trovava nella sua abitazione, bensì in un luogo ricco di erbe medicinali necessarie a curare i malati.

Due suore si accorsero che Martino era sveglio e si precipitarono per capire come stava. Egli esitò un istante prima di parlare, ma dovette per forza chiedere un bicchier d'acqua a causa la sete irresistibile.

Le suore, di nome Isabella e Clara, lo posero immediatamente sul comodino che affiancava il letto. Martino ringraziò annuendo perché oramai aveva perso la sua voce a causa della gola secca. Quando  deglutì l'acqua fresca, ebbe il coraggio di parlare sussurrando debolmente: "Dove mi trovo?"  

Suor Clara, accarezzando la fronte del bambino indifeso, rispose: "Tranquillo, qui ci prenderemo cura di te".

Il bambino, non ancora del tutto consapevole, poggiò la testa sul cuscino.

I giorni passarono, lui si sentiva sempre meglio, strinse amicizia con una bambina che aveva il suo stesso problema, che disse di chiamarsi Maria.

Con lei passava la maggior parte del suo tempo, giocavano a giândolin, un trottolino che si faceva girare con una sottile funicella.

Ogni dì Martino riceveva la sua dose di erbe curative che contribuivano alla sua guarigione.

Ormai era la terza ora dopo il vespro ed egli era insonne, l' unica cosa che si sentiva erano i passi leggeri delle suore che, essendo affaticate dalla frustrante giornata svolta, andavano a riposare.

Il bambino diede un ultimo sguardo allo spiraglio di luce che giungeva nella sua camera. Ad un tratto tutto si spense.

Non appena fece un tentativo di chiudere gli occhi, una voce a lui sospetta proferì: "Martino io non ti svelerò la mia identità, ma solo il motivo del  perché sto comunicando con te. Vedi, devi sapere che questo è il luogo nel quale sono venuto a mancare a causa di una persona di questo ospitale di cui non ti dirò il nome".

Martino, anche se spaventato, ignorò la voce e crollò in un sonno profondo.

Il giorno seguente si scaraventò giù dal letto con un balzo e si avvicinò alla sua compagna per svegliarla e per annunciarle  l’accaduto. 

Maria era molto bella, aveva un viso candido e bianco come la neve, i suoi occhi erano azzurri e le  lunghe ciglia rendevano il suo volto dolce e buono; i suoi capelli biondi come il grano erano quasi sempre raccolti in una treccia che lei disfaceva e rimodellava accuratamente ogni giorno. Era magra e alta quasi quanto Martino.

Le diede un colpo sulla spalla e lei si svegliò urlando dallo spavento.

Martino tranquillizzò Maria e poi le sussurrò: “Ti andrebbe di fare la colazione?”  

Lei emise un semplice "sì".  Si alzarono per prendere il corridoio che portava alla cucina; quando all’improvviso comparve davanti a loro suor Clara che urlò: “Dove pensate di andare?!”

“A fare colazione” risposero i due bambini.

“No! Andate a riposare, ve la porterò io” concluse sbrigativamente il discorso e si incamminò frettolosamente verso  la sala. I due bambini si diressero verso la camera ridendo della goffa e strana andatura della suora.

La mattina passò velocemente  e il pomeriggio era alle porte, era la nona ora quando suor Isabella andò a chiamare Martino e Maria.

Si radunarono nel cortile circostante all’ospitale. C’erano numerose persone in festa, si respirava un'autentica aria d'allegria; Martino e Maria erano entusiasti all’idea di passare tutto il pomeriggio in quel luogo.

Per tutto il giorno mangiarono e giocarono a giochi divertenti e  la sera si avvicinò velocemente.

Mentre Martino percorreva la strada che conduceva all’entrata,  intravide nuovamente la medesima ombra che aveva notato il giorno prima della sua entrata nell’ospitale.

Quella notte Martino era molto agitato e non riusciva a togliersi dalla  testa una canzoncina che ricordava vagamente, pensava fosse quella che gli cantava sua mamma quando era piccolo…ma non era sicuro…

Beuga bugagna,

Martin o l’è andaeto in Spagna

A carregà di foenti

Fra piccìn e grendi

I grendi da maià

E i piccìn da demmoà!”

Martino era esausto, non riusciva a svegliarsi.

All’alba  egli andò correndo,  molto sudato, nella camera di suor Clara urlando a squarciagola ciò che la sera aveva udito e temuto. La monaca, preoccupata, gli toccò la fronte calda e sudata; lo prese di corsa in braccio e lo portò fino al letto dove lo coprì con un  telo molto sottile di colore bianco e lo rinfrescò con bende bagnate.

Martino continuò nel suo racconto di ciò che aveva sentito, ma suor Clara non ne voleva sapere e lo zittiva.

Martino stava riposando in una camera contigua a quella   dove risiedeva un malato di peste. Quando suor Clara si voltò per afferrare un altro panno bagnato per il bambino,  fece in tempo a vedere il paziente squarciato nell’addome.

Sul soffitto una filastrocca scritta con il sangue…

Beuga bugagna,

Martin o l’è andaeto in Spagna

A carregà di foenti

Fra piccìn e grendi

I grendi da maià

E i piccìn da demmoà!”

Impossibile, pensò suor Clara, il piccolo Martino aveva ragione, non erano allucinazioni; nell’ospitale era presente qualcosa di sovrannaturale.

Clara, senza pensarci due volte, si mise a correre nel corridoio per avvisare suor Isabella e, in preda al panico, iniziò ad urlare.

Martino si alzò di soprassalto. Era confuso e si accorse che la scritta sul muro era la stessa canzoncina che la notte aveva in testa; subito gli venne in mente la sua cara amica Maria  e si precipitò verso la sua stanza, ma lei era scomparsa.

Martino non avrebbe mai accettato la morte o il rapimento della sua amica, così si non perse d’animo e iniziò  a pensare ai vari posti dove poteva essersi rifugiata.  Il primo luogo che gli venne in mente fu il ripostiglio dove per la prima volta erano andati a giocare insieme; subito vi si precipitò e, fortunatamente, la ritrovò  accovacciata che piangeva disperatamente.

Martino rimase a guardare la scena per un istante con occhi di commozione, poi si precipitò a stringerla in un caloroso e tenero abbraccio .

Maria all’inizio si ribellò, ma poi cedette e gli donò un piccolo bacio sulla morbida guancia.

Martino divenne leggermente rosso dalla vergogna e  Maria scappò via.

Nel frattempo suor Clara e suor Isabella, mentre piangevano, trasportavano  i cadaveri fuori dall’edificio. Nel pomeriggio iniziarono le indagini e interrogarono Martino.

Egli cercò di spiegare alle suore la sagoma che intravedeva e le voci notturne minacciose che udiva.

Quella sera rimase da solo in camera mentre le suore ripulivano il muro dalle macchie di sangue e Maria già dormiva  accanto alla sua piccola  bügatta, una bambola di pezza.

Martino stava per addormentarsi, ma ad un certo punto la  finestra si spalancò facendo svolazzare le leggere tende gialle.

Si voltò per andare a letto e sentì quella voce che sussurrò:

“MARTINO, SONO SULLE SCALE…MARTINO, SONO SOTTO IL LETTO…. CONTA CON ME SINO A CINQUE E SENTIRAI UN URLO TREMENDO. QUALCUNO, AHIME’, MORIRA'…”

All’inizio Martino pensò che la persona indicata fosse Maria e, quindi, si infilò nel suo letto e la strinse forte al petto.

Poi la voce riprese a parlare: “1…2…3..4.5”

Martino udì un urlo potentissimo seguito da un sussulto, non era Maria, allora di chi si trattava?

La voce si interruppe con una grande risata maligna.

Il bambino, spaventatissimo, percorse il corridoio per andare ad avvisare le due suore, spalancò la porta e trovò suor Isabella piangere sul cadavere della sua cara consorella.  Martino sussurrò con un filo di voce ormai quasi esaurito dallo spavento e dai singhiozzi: “ F-f-orse è c-colpa mia io sapevo, io sentivo  quella voce che mi diceva …che qualcuno sarebbe morto…” Non ebbe il coraggio di andare avanti e scoppiò nuovamente in un pianto doloroso.

Il giorno seguente Maria si svegliò, ma non vide al suo fianco il suo amico; pensava fosse stato ucciso dall’assassino che si aggirava nell’ospitale, però fece ugualmente il tentativo di andare a cercarlo.

Nel ritrovarlo, conobbe pure l’amara verità; ella chiese conferma a Martino di ciò che in cuor suo immaginava e lui rispose con un cenno sconsolato: “Sì”

Maria era sbigottita, non ci poteva credere e il tutto si concluse con un abbraccio dei due per consolarsi l’un l’altro.

I giorni e le notti passavano velocemente anche se tutti sentivano la mancanza di suor Clara. Suor Isabella passava le sue giornate ad esaminare la filastrocca che l’assassino aveva scritto sul muro.

Fino  a che,  una mattina, ella svegliandosi di soprassalto, si diresse come una furia verso la camera di Martino e gli riferì che la notte precedente aveva sognato un uomo che ai suoi occhi pareva brutto, selvaggio, ignobile, bugiardo e ladro di povere anime; ricordava che nel sogno egli era venuto per uccidere e minacciare  persone indifese e che ad un tratto le era parso di vedere la traduzione in volgare italiano dell’orribile scritta sul muro:

“Beuga  bugagna, Martino è andato in Spagna a caricar fanciulli fra piccini e grandi, i grandi da maritare e i piccini da far giocare…”

Dopo ciò, suor Isabella assunse un’aria poco felice e molto preoccupata…: “ Martino, non posso più tenerti qui, se le minacce e la scritta sono veramente riferite a te, come crediamo, tu devi andare via, il più lontano possibile. Non posso permettere che il mio ospitale e la vita delle persone qui ricoverate siano messi a repentaglio… non vorrei cacciarti, ma è ciò che devo fare.Se tu rimani qui, molti dei pazienti  morirebbero e l’ospitale perderebbe importanza. Quando tu arrivasti qui, avevi nove anni, di tempo ne è passato, guardati, hai già sedici anni e ti abbiamo guarito insieme a Maria, che dovrà rimanere qui ancora un po’ per sicurezza. Sono sicura che te la caverai perfettamente anche da solo”. Dalla guancia della suora scivolò una lacrima.

Martino era perplesso, ma, nonostante ciò, fece continuare la suora che continuò a spiegargli le stesse cose ancora per un po’, poi si alzò e con passo deciso si incamminò verso la finestra e osservò il paese da lontano: “Dovrò uscire là fuori da solo…Cosa farei senza il vostro aiuto? Se morissi?! E poi Maria…”  scoppiò in lacrime che lo lasciarono senza parole per tutto il giorno.

Maria non capiva perché non volesse giocare o parlare con lei e ogni volta che cercava di avvicinarsi per  parlargli il coraggio scompariva e la timidezza si faceva avanti sconfiggendola.

Martino non chiuse occhio per tutta la notte successiva e alla fine decise che sarebbe stato  meglio lasciare l’ospitale; andò in punta di piedi  verso l’armadio e raccolse i suoi abiti che mise nella propria sacca; prima di uscire, però, non dimenticò di dare un leggero bacio sulla fronte di Maria.

Uscì dalla camera e, di seguito, si incamminò verso il paese, raggiunse la casa abbandonata  e si sistemò assonnato nel suo ormai infreddolito letto.

Per qualche anno Martino continuò a condurre una vita di lavoro e fatiche, fino a che un giorno camminando per le vie del paese intravide quello che gli pareva fosse il viso candido della dolce Maria… avrebbe voluto correrle incontro e abbracciarla forte, ma erano passati così tanti anni.. chissà se si ricordava di lui o se l’avesse mai perdonato per averla abbondata con un solo bacio sulla fronte mentre dormiva.

Era proprio una donna bellissima, con quei suoi occhi celesti e la sua pelle rosea, i lunghi capelli  che le ricadevano sul petto come nastri di seta; aveva un bellissimo vestito azzurro lungo fino ai piedi, i suoi passi erano leggeri ed il suo sorriso divino.

Il giorno seguente rimase appostato nel medesimo punto in cui l’aveva avvistata, finché gli parve di vederla in lontananza. A quel punto si alzò e cominciò a correrle incontro, spalancò le braccia e un minuto dopo lei era già lì, abbracciata a lui…

Martino pensava che Maria non volesse vederlo né parlare con lui, ma, al contrario, lei stava contraccambiando molto volentieri il suo dolce abbraccio.

Dopo quel giorno Martino e Maria non erano solo più amici, ma una coppia felice.

Al matrimonio Maria era stupenda, indossava un abito ereditato dalla sua mamma, non era  bianco, bensì verde e aveva una piccola coroncina di fiori colorati e profumati sulla sua testa, aveva i capelli raccolti in un muccio di trecce più o meno grandi.

Un piccolo batuffolo di nome Marcello crebbe alla sola presenza del padre. Maria, infatti, era morta di parto.

All’età di dieci anni Marcello perse anche il padre a causa del tifo;  rimase completamente senza forze  e disperato. Si ammalò di peste, pertanto  fu destinato alle cure dell’ospitale di Santa Croce; a curarlo c’erano la vecchia suora Isabella e una giovincella aiutante, suor Anita.

Le due suore aiutarono per molto tempo Marcello, ma una notte anche lui iniziò a sentire una voce sospetta…

Continua…





  • Fonti utilizzate:
  • AA.VV., La Liguria paese per paese, Voll. III e IV, Guido Mondani Editore, Genova, 1984
  • Ferrando Ivana, I giochi a Genova, Sagep Editrice, Genova, 1969
  • -Dolcino Michelangelo, I misteri a Genova, Pirella Editore, Genova, 1976
  • Alcuni numeri della rivista Focus Storia
  • Ricerche di storia prodotte nell’anno scolastico 2012-2013
Sito http://www.storiamedievale.net

Il ragazzo e il veliero

Racconto che ha partecipato al concorso 'Raccontare il Medioevo' a cura dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo.




Tutto iniziò nel 1282 quando ero un ragazzo residente  a Quarto, a quattro miglia da Genova.


Il mio nome è Domenico, non ho mai conosciuto i miei genitori perché sono morti in battaglia, così mi ha raccontato la mia balia di nome Maria. Sono stato cresciuto da lei fino a quando ho compiuto dieci anni perché Maria era da tempo molto malata ed è morta. Mi ricordo che morivano tante persone, donne, vecchi, bambini, di una malattia chiamata peste nera che era incurabile e mieteva tante vittime soprattutto tra i poveri.


La mia balia non era ricca, ma mi voleva molto bene, cercava di non farmi mancare mai il cibo, magari lei non mangiava ma per me c’era sempre qualcosa. Mi ricordo che spesso scherzava: “ Stasera proprio non mi sento di mangiare, anzi sai cosa facciamo? Apparecchiamo come fossimo ad un ricco banchetto” e, così dicendo, stendeva una tovaglia tutta colorata sul pavimento di terra all’interno della casa e, accendendo il lume che metteva al centro, tirava fuori un bel pezzo di pane e  una forma  di formaggio che, per me, era come oro!


Abitavamo in un villaggio dove c’erano tante case e cascine tutte una addosso all’altra come se volessero tenersi caldo o meglio nascondere ciò che c’era all’interno, ma cosa c’era all’interno?

Beh! Io e la mia Maria eravamo molto fortunati perché la nostra casa -e dico nostra- era costruita con delle pietre grandi, grandi, ammucchiate una vicina all’altra come se si spingessero, ma in verità si tenevano su una con l’altra.

La casa era appartenuta al papà di Maria che aveva avuto questa unica figlia a cui dedicò tutta la sua vita perché sua moglie era morta quando lei era nata, morta di parto come accadeva allora a tante donne.


Maria, alla sera, quando mi metteva a dormire, raccontava che suo papà era un brav’uomo, un pescatore, aveva una barca tutta di legno che si era costruito fin da bambino e, grazie a quella barca, era riuscito a pescare, vendere il pesce e sfamare la sua famiglia.

Partiva alla sera e non dimenticava mai di baciare sulla fronte Maria e dirle dolci paroline che la facevano  sentire una principessa. La  lasciava sussurrandole ”Maria, dolce Maria, chiudi gli occhi, mia piccina, che papà presto tornerà” e, così dicendo, chiudeva l’uscio. Maria scivolava in un sonno profondo al calduccio, infatti il suo letto era stato costruito con il tronco scavato di un ulivo e riempito con tanto fieno; il papà prendeva il largo dalla scogliera distante pochi passi da casa.

All’alba egli rientrava, andava a vendere il pesce direttamente sulla scogliera e, poi, molto più tardi, correva a casa dalla sua principessa con il cibo.


Dunque, tornando alla nostra casa di pietra, adesso quel letto è il mio.


Il papà di Maria, seppur povero,  aveva anche pagato un maestro che aveva insegnato a sua figlia a leggere e scrivere.

Non ho mai ricevuto un’istruzione, non sono mai andato a scuola, ho conosciuto ragazzi della mia età discendenti da famiglie nobili che mi credevano ignorante. In realtà Maria mi aveva insegnato tutto quello che sapeva, infatti sapevo leggere e scrivere anche se lasciavo che gli altri credessero a me come ad un analfabeta.

Ho sempre creduto in me stesso e non mi sono mai arreso ed è per questo che ho imparato a combattere e a rischiare la vita per sopravvivere.


Rimasto solo, dopo aver pianto pianto e pianto tante lacrime, mi sono guardato intorno, ho preso tutto il coraggio che avevo dentro di me: era ora che camminassi con le mie gambe.


Ho iniziato a correre da casa mia lungo la strada, saltando l’acqua che scorreva al centro, perché era tutta  fogna del villaggio, e, correndo più forte che potevo, raggiunsi la scogliera dove, con due balzi, arrivai all’estremità. Quando sentii il cuore che mi scoppiava in petto, mi fermai, alzai gli occhi e vidi il mio mare.

Era una bella giornata di sole, la brezza soffiava leggera.  Il mare brillava come fosse tempestato di diamanti, era di un azzurro intenso con piccole onde che formavano una sottile schiuma bianca quando si infrangevano sugli scogli, gli spruzzi mi inumidivano il viso ed i capelli.


All’improvviso, alzando gli occhi, mi sembrò di scorgere qualcosa all’orizzonte, allora mi feci ombra agli occhi con le mani e vidi davanti a me tanti velieri con immense vele bianche e la croce rossa.  Erano i velieri di Genova!




Erano tanti, luccicavano al sole e solcavano il mare sembrando solidi e fieri, imponenti ma allo stesso tempo leggeri.


Dentro di me sentii improvvisamente una voglia intensa di essere là sopra. Ecco, era quello il mio posto, ora sapevo ciò che dovevo fare.


Correndo,  raggiunsi il porto prima di sera e chiesi dove e a chi potevo rivolgermi per potermi imbarcare su un veliero anche come mozzo! Dovevo a tutti i costi mettere i miei piedi su quello che avevo visto dalla scogliera.


Mi indicarono una vecchia locanda dove avrei trovato il comandante.

La locanda era sotto i portici vicini al porto, all’interno era buio con tante torce accese e si sentiva cantare canzoni di mare…. l’odore beh! Meglio non descriverlo.


Lungo un tavolaccio c’erano diversi marinai che bevevano seduti su alcune botti sistemate in verticale, alcuni di loro avevano una gamba di legno, altri ancora avevano un occhio bendato.


Quando mi avvicinai, smisero di cantare e… un paio di loro mi dissero di andare a bere il latte dalla mamma perché lì non l’avrei trovato, tutto ciò accompagnato da sghignazzate. Fu allora che con la schiena ben dritta, guardando loro negli occhi e con voce ferma esclamai: “Voglio solcare il mare a bordo di un veliero genovese, devo incontrare il comandante”.


All’improvviso tutti si zittirono (non dico che odore ……grappa, odore di rancido,  sudore vecchio…), nei loro occhi vidi che avevo attirato l’attenzione.

Sentivo un passo dopo l’altro dietro di me. Mi girai lentamente, ormai i miei occhi si erano abituati al buio e vidi un grande uomo che, squadrandomi dall’alto verso il basso, mi poggiò una mano sulla spalla e si presentò: “Eccomi, grande bambino, io sono il comandante Giobatta Grimaldi”.


Era qui  dentro di me che sentii uno squarcio. Il cuore batteva più delle altre volte, finalmente era giunto il segno che il mio destino era sulla strada giusta.


Giobatta, il comandante del veliero più grande della flotta,  proferì: “Ragazzo, tu sai veramente a cosa stai andando incontro? Se vorrai diventare un  marinaio, dovrai affrontare diverse guerre, lotte, soffrire, stare a digiuno per giorni senza cibo e acqua”.

Per la prima volta ero indipendente e responsabile delle mie azioni. Alzai la testa e con convinzione dichiarai: “Sono pronto a tutto, anche al costo di sfuggire alla morte,  voglio essere al vostro servizio e sacrificarmi per Voi, mio capo!”.

Il comandante concluse:  ”Se proprio ci tieni, domani mattina, al sorgere del sole, vieni al molo dove c’è ormeggiato il mio veliero, il Mistral.  Ti aspetto, figliolo”.


Ormai il sole stava calando e  tornai a casa.  Lungo la strada pensai a quello che era successo e quello che sarebbe successo,   felice e deciso  ad andare al molo l’indomani.

All’alba raggiunsi il veliero,  vidi l’azzurro del mare e il cielo con i colori del sole appena sorto,  sentii un leggero vento e l’odore del sale sulla barca.


Il comandante era già lì che mi attendeva: “Buongiorno, ragazzo, dormito bene?” -prese il pugnale che portava nella cinta dei pantaloni e lo lanciò in mare- ”Se lo recuperi, sarà tuo”.

Mi gettai in mare senza neanche pensare e andai giù finché non trovai il pugnale, sentivo i polmoni scoppiarmi in petto, ma, resistendo, tornai a galla e respirai tutta l’aria che poteva, poi salii sul veliero e, raggiunto il comandante, glielo porsi: ”Ecco il vostro pugnale”.

“Ben fatto, ragazzo, il pugnale è tuo. Ma dimmi un po’…” - e guardandomi dritto negli occhi gli alzò il mento con la mano-  “ora lancio questo genovino d’oro e se lo prendi sarà tuo”. Pensai  in un secondo di spostarmi con il sole alle spalle per non essere accecato dalla luce e annunciai al comandante: “Ora sono pronto”. Grimaldi, sorridendo, capì subito la mia astuzia. Sapeva già di aver perso, infatti non si stupì quando afferrai senza dubbi la moneta.


A questo punto il comandante mi fece scendere dalla sua nave portandomi alla locanda dove ci eravamo incontrati, ma, quando stavamo per varcare l’uscio, incontrammo una donna con un neonato tra le braccia che chiedeva la carità per mangiare. Il comandante la scavalcò per entrare e si girò perché verso di me perché ero rimasto fermo a guardare la donna. Mi chiamò: “Forza, ragazzo, entriamo”, ma io non mi mossi, tirai fuori la moneta d’oro e la misi sul neonato, poi entrai con il mio comandante. Una volta entrati, egli si complimentò: ”Sono fiero di te! In poco tempo ho visto un ragazzo forte, astuto e generoso. Domani salpiamo con tutta la flotta al completo”.


Il mattino dopo il veliero levò l’ancora e prese il mare; io avevo solo i miei vestiti, i pantaloni sgualciti e una maglia verde, ma ero tanto felice come da tempo non mi sentivo più. Mi piacevo anche di più con i miei capelli castani un po’ lunghi spettinati dal vento, i grandi occhi marroni che sembrava volessero bere tutta l’acqua del mare, il bel sorriso che mi faceva sorridere anche gli occhi e le tante piccole lentiggini sparse sul naso.


Quando la nave si stava allontanando dalla costa, mi misi a poppa e guardai la mia città, Genova, dal mare. La vidi ancora più bella e le case ancora di più attaccate una all’altra. La mia città, specialmente vista dal mare,  era proprio la Superba.


Pian piano che il veliero si allontanava dalla costa, le case diventavano sempre più piccole e il mare sempre più immenso, fino a quando non si vide più terra all’orizzonte, ma solo il blu del mare che all’orizzonte incontrava l’azzurro del cielo e con lui si confondeva.


Dietro al Mistral procedevano altri velieri più piccoli: era la flotta della mia città che prendeva il largo.


Fin da subito fui messo al lavoro, un duro lavoro: fin dalle prime luci dell’alba dovevo lavare tutto il pavimento del veliero da prua a poppa e strofinare via la salsedine che si accumulava continuamente.  A mezzogiorno ed alla sera dovevo personalmente servire il pranzo e la cena al comandante e i marinai spesso lo tormentavano prendendolo in giro.


Trascorso più di un mese, dopo aver imparato come si pulisce una nave, come funziona la cucina, il comandante decise che era il momento che imparassi come si governa un veliero; venni affiancato al timoniere e qui imparai i venti, le costellazioni e i punti cardinali, le rotte e tutto quello che è necessario per manovrare un veliero.

Spesso Grimaldi mi guardava compiaciuto, probabilmente gli ricordavo tanto lui tanti anni prima.


All’alba di quella mattina del luglio del 1283 mi resi subito conto che era una giornata diversa. Intanto vidi a distanza una piccola isola dove ci sono molti alberi ma nessuna abitazione e tanti tanti gabbiani che volano e riposano.


All’improvviso sentii la vedetta che urlò: ”Veliero all’orizzonteeeee”. Il comandante prese  immediatamente il comando del veliero e, scrutando scrutando, vide un veliero sul quale  sventolava una  bandiera rossa con al centro un’antica croce bianca: era la Repubblica di  Pisa che puntava dritto su di noi! Subito egli riunì l’equipaggio e comunicò a tutti l’assetto di battaglia. Era arrivato il momento tanto atteso,  ora solo una sarebbe stata la Repubblica dominatrice.


Il mio posto fu accanto al comandante. Pian piano, mentre il Mistral si avvicinava al veliero pisano, vedevamo sempre meglio l’altro equipaggio, anche quello pronto per la battaglia.


Ma quello che mi colpì fu un ragazzo della mia età che, proprio sotto l’albero di maestra, stringendo una sciabola nella mano, mi si mise di fronte. Era un ragazzo alto come me, i capelli biondi lunghi  e due occhi curiosi, azzurri come il mare.


Quando i nostri sguardi si incontrarono,  entrambi riconoscemmo l’amore per il mare. Mi venne  un’idea e, girandomi verso il comandante Grimaldi, bastò solo uno sguardo per  capirsi immediatamente; egli annuì con la testa.

Fu a quel punto che il ragazzo del veliero di Pisa mi lanciò la sfida: “Fammi vedere cosa sai fare”, alzando la sciabola.

Gli urlai: “Aspetta…….ho visto nei tuoi occhi il mio stesso amore per il mare, ho visto tutto ciò in cui anch’io credo. Ho una proposto da farti. Invece di spargere il nostro sangue e quello di altri marinai, potremmo fare una gara con i  nostri due velieri, io e te, una vera e propria corsa di velocità sul mare” – e, indicando l’isola aggiunsi: “ Chi arriverà per primo dopo un giro intorno a quell’isola sarà il vincitore assoluto della battaglia tra le due Repubbliche marinare”.

Al ragazzo di Pisa piacque questa nuova idea e,  sorridendo,  guardandomi fisso negli occhi, accettò la sfida con una forte sciabolata nell’aria.


Entrambi gli equipaggi  deposero le armi, lasciarono i posti di battaglia per prendere posto per una sfida di velocità sul mare, il vincitore sarebbe stato l’eroe della battaglia tra le Repubbliche di Genova e Pisa.


I due velieri  nello stesso tempo spiegarono  tutte le vele, che splendevano  al sole. Il vento le gonfiava, gli equipaggi alzarono nel punto più alto le bandiere,  ognuna con lo stemma della propria città.


Entrambi noi ragazzi prendemmo posto al timone. I comandanti delle due flotte diedero insieme il via a questa gara. I velieri iniziarono a solcare il mare, il vento soffiò nelle nostre vele facendoci correre sul mare. Non sembrava una sfida,  bensì una danza sull’acqua dove le due navi sembravano volare leggere. Noi due forse neanche pensavamo al premio in palio,  avevamo i capelli che sventolavano e  gli occhi che brillavano e sorridevano insieme, concentrati in una sfida di passione.


Ebbero un grande tifo i due comandanti da tutta la flotta delle piccole imbarcazioni, ciascuna con la propria bandiera issata, ma ferme in mezzo al mare ad osservare il “volo dei velieri: quella che poi sarà chiamata per sempre regata”.


La gara fu appassionante.  Subito fu in testa il veliero di Pisa che corse veloce sulle onde, ma dopo più della metà del percorso il Mistral lo raggiunse.

Noi due ragazzi avemmo il tempo di  puntarci lo sguardo uno sull’altro. A quel punto alzai gli occhi al cielo, cercai il sole ed urlai al timoniere: “Vira a destraaaaa!”


Improvvisamente il veliero di Pisa si trovò costretto a fare una veloce manovra per evitare di essere investito,  ma così ora il sole accecò il ragazzo al timone… fu un attimo,  ma quanto bastò  al Mistral per fuggire veloce verso la vittoria accompagnato dall’esultanza di tutta la flotta,  Giobatta Grimaldi compreso che sorrise pieno di orgoglio per quel ragazzo….che gli ricordava come lui era….anzi, meglio….al quale si divertiva a prevederne il futuro.


Il 6 agosto del 1284 c’ero anch’io a bordo di una galea presso le secche della Meloria. Ma quella fu tutta un’altra storia.











Fonti utilizzate:

-       AA.VV., La Liguria paese per paese, Voll. III e IV, Guido Mondani Editore, Genova, 1984

-       Ferrando Ivana, I giochi a Genova, Sagep Editrice, Genova, 1969

-       -Dolcino Michelangelo, I misteri a Genova, Pirella Editore, Genova, 1976

-       Alcuni numeri della rivista Focus Storia

-       Ricerche di storia prodotte nell’anno scolastico 2012-2013

-       Sito http://www.storiamedievale.net

Giallo alla Villa del Varignano Vecchio



Era una fresca sera d’estate. La brezza faceva danzare le foglie d’ulivo sulla collina.

Era la terza ora dopo il vespro e , in seguito a una lunga giornata nei campi, finalmente ci potevamo godere la notte. Le mie palpebre erano pesanti e non vedevo l’ora che si chiudessero.

Improvvisamente sentii dei passi avvicinarsi alla camera. Il cuore mi batteva forte. Senza pensarci, mi alzai e, dopo aver messo a posto il letto per far sembrare che non ci fosse stato nessuno, mi ci nascosi sotto.

Un individuo aprì la porta. Dal mio nascondiglio non riuscivo a scorgergli il volto, ma notai che le sue gambe erano bagnate fradicie; a giudicar dalle numerose gocce che cadevano a terra, doveva esserlo anche la restante parte del corpo.

“Lucio? Ci sei?”. Riconobbi quella voce e mi tranquillizzai. Uscii da sotto il letto.

Era Flavio, grondante acqua dalla testa ai piedi e con un braccio sanguinante,

“Si può sapere dove sei stato?” domandai seccato.

“Mi stavo riposando sotto ad un ulivo, non ce la facevo più a zappare”.

Nella villa e nel fondo ognuno aveva le proprie responsabilità e Flavio non era certo affidabile.

“Cosa credi? Anch’io mi spacco la schiena nei campi!”.

Non rispose e si mise a dormire, infradiciando il letto.

“A proposito: perché sei bagnato?”. Ormai russava.

Il giorno dopo fu straziante: il sole batteva forte e si era disposti a fare a pugni per un po’ d’ombra. Quando non c’erano guardie nei paraggi, ogni contadino correva verso l’ulivo più vicino per ripararsi.

Stavo riposando quando mi sentii spinto e caddi nelle morbide zolle di terra. Ero pronto a scommettere che una guardia mi avesse scoperto, ma, quando mi voltai, vidi Marzio che, con il suo solito ghigno, si stendeva all’ombra. Quel tipo è pericoloso. Non stetti neanche a discutere. Stavo per ricominciare a lavorare quando vidi le guardie farci cenno di recarci al loro cospetto.

“Ieri è avvenuto un furto! E’ stato rubato un bene di Marcus, il dominus della villa. Fidatevi, non ci metteremo molto a trovare il colpevole!”

Studiarono i nostri sguardi uno a uno. Povero Flavio: anche se non era il colpevole, mostrava paura come un bambino. Quando constatarono che nessuno voleva ammettere, se ne andarono impartendoci l’ordine di proseguire il nostro lavoro. Mi domandai quale potesse essere l’avere di cui parlava la guardia. Voci tra i contadini dicevano che quella sera ci sarebbe stato un banchetto qui alla Villa del Varignano e che io ero stato scelto per portare le pietanze a tavola.

Infatti, a mezzodì, una guardia venne a recarmi questa notizia. Ciò è strano. Non succede mai che un contadino viene nominato cameriere.

Giunta sera, mi presentai a Marcus. Era vestito con un abito rosso porpora, ma non era quello solito, quello più sfarzoso. Lo sentii bisbigliare al vilicus, il suo fattore: “Se il contadino desta sospetti, interrogatelo e rinchiudetelo”. Quella sera era ben vestito  e profumato.

Gli ospiti erano già stesi sui loro triclini ed erano accompagnati da una musica di cetra. Dovevano essere ospiti importanti. Io reggevo un vassoio con sopra pesce e garum. La tentazione di assaggiarlo era forte, ma resistetti.

Un ospite bevve un sorso d’acqua e fece una smorfia.

“Oh! L’acqua non è di suo gusto?” chiese prontamente un servitore.

“In effetti ha un sapore sgradevole”.

Arrivo Marcus: “Buona serata, miei cari amici! Scusate se vi ricevo con questo abito, ma il mio migliore mi è stato rubato”.

Le guardie mi fissarono, ma, ancora prima che potessi aprire bocca, vidi Marcus che mi puntava con un dito. Senza esitare, buttai il vassoio e cominciai a correre. Ovviamente fui inseguito, credevano fossi stato io a rubare l’abito; ma non capivo cosa avesse di così importante. Uscii dalla villa. Nel buio persero le mie tracce; ero sui rami di un ulivo ai piedi della collina.

Quando si arresero, tornarono indietro. Avevo molto sonno, ma non potevo andare nella mia cubicula. Mi appoggiai a qualcosa di appiccicoso: era sangue non del tutto seccato. Non mi feci domande su perché ci fosse: stavo per cadere nel sonno. In un incavo del tronco dell’ulivo vidi un luccichio. Ci infilai la mano e tirai fuori un velo di seta ornato con oro e perle. Valeva sicuramente una fortuna.

Vidi le guardie dirigersi verso di me. Rimisi il vestito nel tronco e scappai. Mi diressi verso la cisterna. Ero sicuro che il colpevole fosse Marzio, per questo voleva incastrarmi. Capii cosa dovevo fare: “Fermi! So chi è il ladro, vi assicuro che non sono il colpevole!”

Non mi uccisero, mi bloccarono con delle corde, ma mi diedero ascolto.

Il mio piano era aspettare che il ladro si avvicinasse di nascosto all’ulivo. Dopo poco vidi una figura armeggiare intorno all’albero. Fu in quel momento che vidi Marzio spuntare da dietro una siepe e attaccare il ladro.

Lo riconobbi: era Flavio.

Tutto combaciava. Dopo aver preso il vestito, scappò dalle guardie e si ferì al braccio lasciando tracce di sangue sull’ulivo dove aveva nascosto la refurtiva. Poi, nella fretta, cadde nella cisterna dove perse dell’altro sangue conferendo all’acqua un cattico sapore. Tornò nella cubicula dove lo vidi conciato così. Marzio probabilmente sospettava fossi io il ladro e voleva impossessarsi dell’abito.

Le guardie non ebbero pietà: scoccarono le frecce facendolo cadere a terra.


Intervista al vilicus della Villa del Varignano Vecchio






Abbiamo incontrato il Marcus, il vilicus della Villa del Varignano Vecchio. Ci ha rilasciato la seguente intervista.



  • Buongiorno, signore, lei è il vilicus della villa, cioè l’amministratore. So dalle mie fonti che producete esclusivamente olio, vero?
  • No, in questo momento noi produciamo anche prodotti agricoli e riforniamo d’acqua le navi. Comunque, è ancora prevalente la produzione olearia.
  • La produzione agricola ha migliorato la villa?
  • Sì, c’è stato più di un cambiamento. La zona destinata alla coltivazione dell’ulivo ora è destinata alla coltivazione agricola e la cisterna, allargata,  ora contiene l’acqua per il rifornimento delle navi.
  • Interessante…ma come procedono i lavori?
  • Bene, anzi benissimo! Da quando abbiamo introdotto altre produzioni i guadagni sono aumentati.
  • Mi spiegherebbe la lavorazione dell’olio?
  • Con molto piacere. Le olive vengono raccolte e successivamente portate al torchio. Esso è formato da quattro assi verticali, uno orizzontale e il verricello. Le olive vengono pressate e l’olio passa nelle vasche di decantazione per potersi liberare dalle impurità. Successivamente viene messo nelle anfore per poi essere commerciato.
  • I contadini lavorano con zelo?
  • Mah…Alcuni lavorano molto e bene, altri, per farli lavorare, devo farli frustare, e poi eccome lavorano bene! Il lavoro che mi fa provare più compassione per i contadini è il torchio perché è molto faticoso.
  • Prima mi ha parlato della cisterna. Me la descriverebbe?
  • La cisterna ha una doppia volta e una capacità di 15.625 anfore [N.d.R. 1 anfora=48 litri]. All’esterno troviamo dei contrafforti con in mattone, all’interno muri in cocciopesto. Il cocciopesto è un mattone tritato con la pozzolana, che è una pietra vulcanica.
  • Mi descriverebbe il porto?
  • Ha una banchina lunga circa 12 pertiche e profonda 1 [N.d.R. 1 pertica=2,96 metri]. Lo usiamo molto per i commerci.
  • Con chi commerciate principalmente?
  • Con la colonia di Lunae da cui parte la via Aemilia Scauri. E’ un ottimo giro di commerci.
  • Il dominus come si comporta con lei?
  • E’ una persona tendenzialmente cordiale, ma preferirei non parlarne.
  • Lei ha molte responsabilità?
  • Sì, moltissime. Rima di tutto sul personale e riguardo alla villa, poi ogni mese, se non pago al dominus una certa quota, rischio la pelle. Comunque il mio motto è “Grandi produzioni, grandi guadagni”.
    Pensavamo al vilicus come persona che si godeva la vita nelle terme private. Abbiamo incontrato, invece, una persona molto attenta al suo lavoro.