Tutto iniziò nel
1282 quando ero un ragazzo residente a Quarto,
a quattro miglia da Genova.
Il mio nome è
Domenico, non ho mai conosciuto i miei genitori perché sono morti in battaglia,
così mi ha raccontato la mia balia di nome Maria. Sono stato cresciuto da lei
fino a quando ho compiuto dieci anni perché Maria era da tempo molto malata ed
è morta. Mi ricordo che morivano tante persone, donne, vecchi, bambini, di una
malattia chiamata peste nera che era incurabile e mieteva tante vittime
soprattutto tra i poveri.
La mia balia non
era ricca, ma mi voleva molto bene, cercava di non farmi mancare mai il cibo,
magari lei non mangiava ma per me c’era sempre qualcosa. Mi ricordo che spesso
scherzava: “ Stasera proprio non mi sento di mangiare, anzi sai cosa facciamo?
Apparecchiamo come fossimo ad un ricco banchetto” e, così dicendo, stendeva una
tovaglia tutta colorata sul pavimento di terra all’interno della casa e,
accendendo il lume che metteva al centro, tirava fuori un bel pezzo di pane e una forma di formaggio che, per me, era come oro!
Abitavamo in un
villaggio dove c’erano tante case e cascine tutte una addosso all’altra come se
volessero tenersi caldo o meglio nascondere ciò che c’era all’interno, ma cosa
c’era all’interno?
Beh! Io e la mia
Maria eravamo molto fortunati perché la nostra casa -e dico nostra- era
costruita con delle pietre grandi, grandi, ammucchiate una vicina all’altra come
se si spingessero, ma in verità si tenevano su una con l’altra.
La casa era
appartenuta al papà di Maria che aveva avuto questa unica figlia a cui dedicò
tutta la sua vita perché sua moglie era morta quando lei era nata, morta di
parto come accadeva allora a tante donne.
Maria, alla sera,
quando mi metteva a dormire, raccontava che suo papà era un brav’uomo, un pescatore,
aveva una barca tutta di legno che si era costruito fin da bambino e, grazie a
quella barca, era riuscito a pescare, vendere il pesce e sfamare la sua
famiglia.
Partiva alla
sera e non dimenticava mai di baciare sulla fronte Maria e dirle dolci paroline
che la facevano sentire una principessa.
La lasciava sussurrandole ”Maria, dolce
Maria, chiudi gli occhi, mia piccina, che papà presto tornerà” e, così dicendo,
chiudeva l’uscio. Maria scivolava in un sonno profondo al calduccio, infatti il
suo letto era stato costruito con il tronco scavato di un ulivo e riempito con
tanto fieno; il papà prendeva il largo dalla scogliera distante pochi passi da
casa.
All’alba egli rientrava,
andava a vendere il pesce direttamente sulla scogliera e, poi, molto più tardi,
correva a casa dalla sua principessa con il cibo.
Dunque, tornando
alla nostra casa di pietra, adesso quel letto è il mio.
Il papà di Maria,
seppur povero, aveva anche pagato un
maestro che aveva insegnato a sua figlia a leggere e scrivere.
Non ho mai
ricevuto un’istruzione, non sono mai andato a scuola, ho conosciuto ragazzi
della mia età discendenti da famiglie nobili che mi credevano ignorante. In
realtà Maria mi aveva insegnato tutto quello che sapeva, infatti sapevo leggere
e scrivere anche se lasciavo che gli altri credessero a me come ad un
analfabeta.
Ho sempre
creduto in me stesso e non mi sono mai arreso ed è per questo che ho imparato a
combattere e a rischiare la vita per sopravvivere.
Rimasto solo, dopo
aver pianto pianto e pianto tante lacrime, mi sono guardato intorno, ho preso
tutto il coraggio che avevo dentro di me: era ora che camminassi con le mie
gambe.
Ho iniziato a
correre da casa mia lungo la strada, saltando l’acqua che scorreva al centro,
perché era tutta fogna del villaggio, e,
correndo più forte che potevo, raggiunsi la scogliera dove, con due balzi, arrivai
all’estremità. Quando sentii il cuore che mi scoppiava in petto, mi fermai,
alzai gli occhi e vidi il mio mare.
Era una bella
giornata di sole, la brezza soffiava leggera. Il mare brillava come fosse tempestato di
diamanti, era di un azzurro intenso con piccole onde che formavano una sottile
schiuma bianca quando si infrangevano sugli scogli, gli spruzzi mi inumidivano
il viso ed i capelli.
All’improvviso,
alzando gli occhi, mi sembrò di scorgere qualcosa all’orizzonte, allora mi feci
ombra agli occhi con le mani e vidi davanti a me tanti velieri con immense vele
bianche e la croce rossa. Erano i
velieri di Genova!
Erano tanti,
luccicavano al sole e solcavano il mare sembrando solidi e fieri, imponenti ma allo
stesso tempo leggeri.
Dentro di me
sentii improvvisamente una voglia intensa di essere là sopra. Ecco, era quello
il mio posto, ora sapevo ciò che dovevo fare.
Correndo, raggiunsi il porto prima di sera e chiesi dove
e a chi potevo rivolgermi per potermi imbarcare su un veliero anche come mozzo!
Dovevo a tutti i costi mettere i miei piedi su quello che avevo visto dalla
scogliera.
Mi indicarono
una vecchia locanda dove avrei trovato il comandante.
La locanda era
sotto i portici vicini al porto, all’interno era buio con tante torce accese e
si sentiva cantare canzoni di mare…. l’odore beh! Meglio non descriverlo.
Lungo un
tavolaccio c’erano diversi marinai che bevevano seduti su alcune botti
sistemate in verticale, alcuni di loro avevano una gamba di legno, altri ancora
avevano un occhio bendato.
Quando mi
avvicinai, smisero di cantare e… un paio di loro mi dissero di andare a bere il
latte dalla mamma perché lì non l’avrei trovato, tutto ciò accompagnato da
sghignazzate. Fu allora che con la schiena ben dritta, guardando loro negli
occhi e con voce ferma esclamai: “Voglio solcare il mare a bordo di un veliero
genovese, devo incontrare il comandante”.
All’improvviso
tutti si zittirono (non dico che odore ……grappa, odore di rancido, sudore vecchio…), nei loro occhi vidi che
avevo attirato l’attenzione.
Sentivo un passo
dopo l’altro dietro di me. Mi girai lentamente, ormai i miei occhi si erano
abituati al buio e vidi un grande uomo che, squadrandomi dall’alto verso il
basso, mi poggiò una mano sulla spalla e si presentò: “Eccomi, grande bambino,
io sono il comandante Giobatta Grimaldi”.
Era qui dentro di me che sentii uno squarcio. Il
cuore batteva più delle altre volte, finalmente era giunto il segno che il mio
destino era sulla strada giusta.
Giobatta, il
comandante del veliero più grande della flotta, proferì: “Ragazzo, tu sai veramente a cosa
stai andando incontro? Se vorrai diventare un
marinaio, dovrai affrontare diverse guerre, lotte, soffrire, stare a
digiuno per giorni senza cibo e acqua”.
Per la prima
volta ero indipendente e responsabile delle mie azioni. Alzai la testa e con
convinzione dichiarai: “Sono pronto a tutto, anche al costo di sfuggire alla
morte, voglio essere al vostro servizio
e sacrificarmi per Voi, mio capo!”.
Il comandante concluse: ”Se proprio ci tieni, domani mattina, al
sorgere del sole, vieni al molo dove c’è ormeggiato il mio veliero, il Mistral. Ti aspetto, figliolo”.
Ormai il sole
stava calando e tornai a casa. Lungo la strada pensai a quello che era
successo e quello che sarebbe successo, felice e deciso ad andare al molo l’indomani.
All’alba raggiunsi
il veliero, vidi l’azzurro del mare e il
cielo con i colori del sole appena sorto,
sentii un leggero vento e l’odore del sale sulla barca.
Il comandante
era già lì che mi attendeva: “Buongiorno, ragazzo, dormito bene?” -prese il
pugnale che portava nella cinta dei pantaloni e lo lanciò in mare- ”Se lo
recuperi, sarà tuo”.
Mi gettai in mare
senza neanche pensare e andai giù finché non trovai il pugnale, sentivo i
polmoni scoppiarmi in petto, ma, resistendo, tornai a galla e respirai tutta
l’aria che poteva, poi salii sul veliero e, raggiunto il comandante, glielo
porsi: ”Ecco il vostro pugnale”.
“Ben fatto,
ragazzo, il pugnale è tuo. Ma dimmi un po’…” - e guardandomi dritto negli occhi
gli alzò il mento con la mano- “ora lancio
questo genovino d’oro e se lo prendi sarà tuo”. Pensai in un secondo di spostarmi con il sole alle
spalle per non essere accecato dalla luce e annunciai al comandante: “Ora sono
pronto”. Grimaldi, sorridendo, capì subito la mia astuzia. Sapeva già di aver
perso, infatti non si stupì quando afferrai senza dubbi la moneta.
A questo punto
il comandante mi fece scendere dalla sua nave portandomi alla locanda dove ci
eravamo incontrati, ma, quando stavamo per varcare l’uscio, incontrammo una
donna con un neonato tra le braccia che chiedeva la carità per mangiare. Il
comandante la scavalcò per entrare e si girò perché verso di me perché ero
rimasto fermo a guardare la donna. Mi chiamò: “Forza, ragazzo, entriamo”, ma io
non mi mossi, tirai fuori la moneta d’oro e la misi sul neonato, poi entrai con
il mio comandante. Una volta entrati, egli si complimentò: ”Sono fiero di te! In
poco tempo ho visto un ragazzo forte, astuto e generoso. Domani salpiamo con
tutta la flotta al completo”.
Il mattino dopo
il veliero levò l’ancora e prese il mare; io avevo solo i miei vestiti, i
pantaloni sgualciti e una maglia verde, ma ero tanto felice come da tempo non
mi sentivo più. Mi piacevo anche di più con i miei capelli castani un po’
lunghi spettinati dal vento, i grandi occhi marroni che sembrava volessero bere
tutta l’acqua del mare, il bel sorriso che mi faceva sorridere anche gli occhi
e le tante piccole lentiggini sparse sul naso.
Quando la nave
si stava allontanando dalla costa, mi misi a poppa e guardai la mia città,
Genova, dal mare. La vidi ancora più bella e le case ancora di più attaccate
una all’altra. La mia città, specialmente vista dal mare, era proprio la Superba.
Pian piano che
il veliero si allontanava dalla costa, le case diventavano sempre più piccole e
il mare sempre più immenso, fino a quando non si vide più terra all’orizzonte, ma
solo il blu del mare che all’orizzonte incontrava l’azzurro del cielo e con lui
si confondeva.
Dietro al Mistral procedevano altri velieri più
piccoli: era la flotta della mia città che prendeva il largo.
Fin da subito fui
messo al lavoro, un duro lavoro: fin dalle prime luci dell’alba dovevo lavare
tutto il pavimento del veliero da prua a poppa e strofinare via la salsedine
che si accumulava continuamente. A mezzogiorno
ed alla sera dovevo personalmente servire il pranzo e la cena al comandante e i
marinai spesso lo tormentavano prendendolo in giro.
Trascorso più di
un mese, dopo aver imparato come si pulisce una nave, come funziona la cucina,
il comandante decise che era il momento che imparassi come si governa un
veliero; venni affiancato al timoniere e qui imparai i venti, le costellazioni
e i punti cardinali, le rotte e tutto quello che è necessario per manovrare un
veliero.
Spesso Grimaldi mi
guardava compiaciuto, probabilmente gli ricordavo tanto lui tanti anni prima.
All’alba di quella
mattina del luglio del 1283 mi resi subito conto che era una giornata diversa.
Intanto vidi a distanza una piccola isola dove ci sono molti alberi ma nessuna
abitazione e tanti tanti gabbiani che volano e riposano.
All’improvviso
sentii la vedetta che urlò: ”Veliero all’orizzonteeeee”. Il comandante prese immediatamente il comando del veliero e, scrutando
scrutando, vide un veliero sul quale sventolava una bandiera rossa con al centro un’antica croce
bianca: era la Repubblica di Pisa che
puntava dritto su di noi! Subito egli riunì l’equipaggio e comunicò a tutti
l’assetto di battaglia. Era arrivato il momento tanto atteso, ora solo una sarebbe stata la Repubblica dominatrice.
Il mio posto fu accanto
al comandante. Pian piano, mentre il Mistral
si avvicinava al veliero pisano, vedevamo sempre meglio l’altro equipaggio,
anche quello pronto per la battaglia.
Ma quello che mi
colpì fu un ragazzo della mia età che, proprio sotto l’albero di maestra, stringendo
una sciabola nella mano, mi si mise di fronte. Era un ragazzo alto come me, i capelli
biondi lunghi e due occhi curiosi,
azzurri come il mare.
Quando i nostri
sguardi si incontrarono, entrambi
riconoscemmo l’amore per il mare. Mi venne un’idea e, girandomi verso il comandante
Grimaldi, bastò solo uno sguardo per
capirsi immediatamente; egli annuì con la testa.
Fu a quel punto
che il ragazzo del veliero di Pisa mi lanciò la sfida: “Fammi vedere cosa sai
fare”, alzando la sciabola.
Gli urlai:
“Aspetta…….ho visto nei tuoi occhi il mio stesso amore per il mare, ho visto
tutto ciò in cui anch’io credo. Ho una proposto da farti. Invece di spargere il
nostro sangue e quello di altri marinai, potremmo fare una gara con i nostri due velieri, io e te, una vera e propria
corsa di velocità sul mare” – e, indicando l’isola aggiunsi: “ Chi arriverà per
primo dopo un giro intorno a quell’isola sarà il vincitore assoluto della
battaglia tra le due Repubbliche marinare”.
Al ragazzo di
Pisa piacque questa nuova idea e, sorridendo,
guardandomi fisso negli occhi, accettò la sfida con una forte sciabolata
nell’aria.
Entrambi gli
equipaggi deposero le armi, lasciarono i
posti di battaglia per prendere posto per una sfida di velocità sul mare, il
vincitore sarebbe stato l’eroe della battaglia tra le Repubbliche di Genova e
Pisa.
I due velieri nello stesso tempo spiegarono tutte le vele, che splendevano al sole. Il vento le gonfiava, gli equipaggi
alzarono nel punto più alto le bandiere,
ognuna con lo stemma della propria città.
Entrambi noi
ragazzi prendemmo posto al timone. I comandanti delle due flotte diedero
insieme il via a questa gara. I velieri iniziarono a solcare il mare, il vento
soffiò nelle nostre vele facendoci correre sul mare. Non sembrava una sfida, bensì una danza sull’acqua dove le due navi
sembravano volare leggere. Noi due forse neanche pensavamo al premio in palio, avevamo i capelli che sventolavano e gli occhi che brillavano e sorridevano
insieme, concentrati in una sfida di passione.
Ebbero un grande
tifo i due comandanti da tutta la flotta delle piccole imbarcazioni, ciascuna
con la propria bandiera issata, ma ferme in mezzo al mare ad osservare il “volo
dei velieri: quella che poi sarà chiamata per sempre regata”.
La gara fu
appassionante. Subito fu in testa il
veliero di Pisa che corse veloce sulle onde, ma dopo più della metà del
percorso il Mistral lo raggiunse.
Noi due ragazzi
avemmo il tempo di puntarci lo sguardo
uno sull’altro. A quel punto alzai gli occhi al cielo, cercai il sole ed urlai
al timoniere: “Vira a destraaaaa!”
Improvvisamente
il veliero di Pisa si trovò costretto a fare una veloce manovra per evitare di
essere investito, ma così ora il sole
accecò il ragazzo al timone… fu un attimo, ma quanto bastò al Mistral
per fuggire veloce verso la vittoria accompagnato dall’esultanza di tutta la
flotta, Giobatta Grimaldi compreso che
sorrise pieno di orgoglio per quel ragazzo….che gli ricordava come lui
era….anzi, meglio….al quale si divertiva a prevederne il futuro.
Il 6 agosto del
1284 c’ero anch’io a bordo di una galea presso le secche della Meloria. Ma quella
fu tutta un’altra storia.
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