venerdì 23 maggio 2014

Il ragazzo e il veliero

Racconto che ha partecipato al concorso 'Raccontare il Medioevo' a cura dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo.




Tutto iniziò nel 1282 quando ero un ragazzo residente  a Quarto, a quattro miglia da Genova.


Il mio nome è Domenico, non ho mai conosciuto i miei genitori perché sono morti in battaglia, così mi ha raccontato la mia balia di nome Maria. Sono stato cresciuto da lei fino a quando ho compiuto dieci anni perché Maria era da tempo molto malata ed è morta. Mi ricordo che morivano tante persone, donne, vecchi, bambini, di una malattia chiamata peste nera che era incurabile e mieteva tante vittime soprattutto tra i poveri.


La mia balia non era ricca, ma mi voleva molto bene, cercava di non farmi mancare mai il cibo, magari lei non mangiava ma per me c’era sempre qualcosa. Mi ricordo che spesso scherzava: “ Stasera proprio non mi sento di mangiare, anzi sai cosa facciamo? Apparecchiamo come fossimo ad un ricco banchetto” e, così dicendo, stendeva una tovaglia tutta colorata sul pavimento di terra all’interno della casa e, accendendo il lume che metteva al centro, tirava fuori un bel pezzo di pane e  una forma  di formaggio che, per me, era come oro!


Abitavamo in un villaggio dove c’erano tante case e cascine tutte una addosso all’altra come se volessero tenersi caldo o meglio nascondere ciò che c’era all’interno, ma cosa c’era all’interno?

Beh! Io e la mia Maria eravamo molto fortunati perché la nostra casa -e dico nostra- era costruita con delle pietre grandi, grandi, ammucchiate una vicina all’altra come se si spingessero, ma in verità si tenevano su una con l’altra.

La casa era appartenuta al papà di Maria che aveva avuto questa unica figlia a cui dedicò tutta la sua vita perché sua moglie era morta quando lei era nata, morta di parto come accadeva allora a tante donne.


Maria, alla sera, quando mi metteva a dormire, raccontava che suo papà era un brav’uomo, un pescatore, aveva una barca tutta di legno che si era costruito fin da bambino e, grazie a quella barca, era riuscito a pescare, vendere il pesce e sfamare la sua famiglia.

Partiva alla sera e non dimenticava mai di baciare sulla fronte Maria e dirle dolci paroline che la facevano  sentire una principessa. La  lasciava sussurrandole ”Maria, dolce Maria, chiudi gli occhi, mia piccina, che papà presto tornerà” e, così dicendo, chiudeva l’uscio. Maria scivolava in un sonno profondo al calduccio, infatti il suo letto era stato costruito con il tronco scavato di un ulivo e riempito con tanto fieno; il papà prendeva il largo dalla scogliera distante pochi passi da casa.

All’alba egli rientrava, andava a vendere il pesce direttamente sulla scogliera e, poi, molto più tardi, correva a casa dalla sua principessa con il cibo.


Dunque, tornando alla nostra casa di pietra, adesso quel letto è il mio.


Il papà di Maria, seppur povero,  aveva anche pagato un maestro che aveva insegnato a sua figlia a leggere e scrivere.

Non ho mai ricevuto un’istruzione, non sono mai andato a scuola, ho conosciuto ragazzi della mia età discendenti da famiglie nobili che mi credevano ignorante. In realtà Maria mi aveva insegnato tutto quello che sapeva, infatti sapevo leggere e scrivere anche se lasciavo che gli altri credessero a me come ad un analfabeta.

Ho sempre creduto in me stesso e non mi sono mai arreso ed è per questo che ho imparato a combattere e a rischiare la vita per sopravvivere.


Rimasto solo, dopo aver pianto pianto e pianto tante lacrime, mi sono guardato intorno, ho preso tutto il coraggio che avevo dentro di me: era ora che camminassi con le mie gambe.


Ho iniziato a correre da casa mia lungo la strada, saltando l’acqua che scorreva al centro, perché era tutta  fogna del villaggio, e, correndo più forte che potevo, raggiunsi la scogliera dove, con due balzi, arrivai all’estremità. Quando sentii il cuore che mi scoppiava in petto, mi fermai, alzai gli occhi e vidi il mio mare.

Era una bella giornata di sole, la brezza soffiava leggera.  Il mare brillava come fosse tempestato di diamanti, era di un azzurro intenso con piccole onde che formavano una sottile schiuma bianca quando si infrangevano sugli scogli, gli spruzzi mi inumidivano il viso ed i capelli.


All’improvviso, alzando gli occhi, mi sembrò di scorgere qualcosa all’orizzonte, allora mi feci ombra agli occhi con le mani e vidi davanti a me tanti velieri con immense vele bianche e la croce rossa.  Erano i velieri di Genova!




Erano tanti, luccicavano al sole e solcavano il mare sembrando solidi e fieri, imponenti ma allo stesso tempo leggeri.


Dentro di me sentii improvvisamente una voglia intensa di essere là sopra. Ecco, era quello il mio posto, ora sapevo ciò che dovevo fare.


Correndo,  raggiunsi il porto prima di sera e chiesi dove e a chi potevo rivolgermi per potermi imbarcare su un veliero anche come mozzo! Dovevo a tutti i costi mettere i miei piedi su quello che avevo visto dalla scogliera.


Mi indicarono una vecchia locanda dove avrei trovato il comandante.

La locanda era sotto i portici vicini al porto, all’interno era buio con tante torce accese e si sentiva cantare canzoni di mare…. l’odore beh! Meglio non descriverlo.


Lungo un tavolaccio c’erano diversi marinai che bevevano seduti su alcune botti sistemate in verticale, alcuni di loro avevano una gamba di legno, altri ancora avevano un occhio bendato.


Quando mi avvicinai, smisero di cantare e… un paio di loro mi dissero di andare a bere il latte dalla mamma perché lì non l’avrei trovato, tutto ciò accompagnato da sghignazzate. Fu allora che con la schiena ben dritta, guardando loro negli occhi e con voce ferma esclamai: “Voglio solcare il mare a bordo di un veliero genovese, devo incontrare il comandante”.


All’improvviso tutti si zittirono (non dico che odore ……grappa, odore di rancido,  sudore vecchio…), nei loro occhi vidi che avevo attirato l’attenzione.

Sentivo un passo dopo l’altro dietro di me. Mi girai lentamente, ormai i miei occhi si erano abituati al buio e vidi un grande uomo che, squadrandomi dall’alto verso il basso, mi poggiò una mano sulla spalla e si presentò: “Eccomi, grande bambino, io sono il comandante Giobatta Grimaldi”.


Era qui  dentro di me che sentii uno squarcio. Il cuore batteva più delle altre volte, finalmente era giunto il segno che il mio destino era sulla strada giusta.


Giobatta, il comandante del veliero più grande della flotta,  proferì: “Ragazzo, tu sai veramente a cosa stai andando incontro? Se vorrai diventare un  marinaio, dovrai affrontare diverse guerre, lotte, soffrire, stare a digiuno per giorni senza cibo e acqua”.

Per la prima volta ero indipendente e responsabile delle mie azioni. Alzai la testa e con convinzione dichiarai: “Sono pronto a tutto, anche al costo di sfuggire alla morte,  voglio essere al vostro servizio e sacrificarmi per Voi, mio capo!”.

Il comandante concluse:  ”Se proprio ci tieni, domani mattina, al sorgere del sole, vieni al molo dove c’è ormeggiato il mio veliero, il Mistral.  Ti aspetto, figliolo”.


Ormai il sole stava calando e  tornai a casa.  Lungo la strada pensai a quello che era successo e quello che sarebbe successo,   felice e deciso  ad andare al molo l’indomani.

All’alba raggiunsi il veliero,  vidi l’azzurro del mare e il cielo con i colori del sole appena sorto,  sentii un leggero vento e l’odore del sale sulla barca.


Il comandante era già lì che mi attendeva: “Buongiorno, ragazzo, dormito bene?” -prese il pugnale che portava nella cinta dei pantaloni e lo lanciò in mare- ”Se lo recuperi, sarà tuo”.

Mi gettai in mare senza neanche pensare e andai giù finché non trovai il pugnale, sentivo i polmoni scoppiarmi in petto, ma, resistendo, tornai a galla e respirai tutta l’aria che poteva, poi salii sul veliero e, raggiunto il comandante, glielo porsi: ”Ecco il vostro pugnale”.

“Ben fatto, ragazzo, il pugnale è tuo. Ma dimmi un po’…” - e guardandomi dritto negli occhi gli alzò il mento con la mano-  “ora lancio questo genovino d’oro e se lo prendi sarà tuo”. Pensai  in un secondo di spostarmi con il sole alle spalle per non essere accecato dalla luce e annunciai al comandante: “Ora sono pronto”. Grimaldi, sorridendo, capì subito la mia astuzia. Sapeva già di aver perso, infatti non si stupì quando afferrai senza dubbi la moneta.


A questo punto il comandante mi fece scendere dalla sua nave portandomi alla locanda dove ci eravamo incontrati, ma, quando stavamo per varcare l’uscio, incontrammo una donna con un neonato tra le braccia che chiedeva la carità per mangiare. Il comandante la scavalcò per entrare e si girò perché verso di me perché ero rimasto fermo a guardare la donna. Mi chiamò: “Forza, ragazzo, entriamo”, ma io non mi mossi, tirai fuori la moneta d’oro e la misi sul neonato, poi entrai con il mio comandante. Una volta entrati, egli si complimentò: ”Sono fiero di te! In poco tempo ho visto un ragazzo forte, astuto e generoso. Domani salpiamo con tutta la flotta al completo”.


Il mattino dopo il veliero levò l’ancora e prese il mare; io avevo solo i miei vestiti, i pantaloni sgualciti e una maglia verde, ma ero tanto felice come da tempo non mi sentivo più. Mi piacevo anche di più con i miei capelli castani un po’ lunghi spettinati dal vento, i grandi occhi marroni che sembrava volessero bere tutta l’acqua del mare, il bel sorriso che mi faceva sorridere anche gli occhi e le tante piccole lentiggini sparse sul naso.


Quando la nave si stava allontanando dalla costa, mi misi a poppa e guardai la mia città, Genova, dal mare. La vidi ancora più bella e le case ancora di più attaccate una all’altra. La mia città, specialmente vista dal mare,  era proprio la Superba.


Pian piano che il veliero si allontanava dalla costa, le case diventavano sempre più piccole e il mare sempre più immenso, fino a quando non si vide più terra all’orizzonte, ma solo il blu del mare che all’orizzonte incontrava l’azzurro del cielo e con lui si confondeva.


Dietro al Mistral procedevano altri velieri più piccoli: era la flotta della mia città che prendeva il largo.


Fin da subito fui messo al lavoro, un duro lavoro: fin dalle prime luci dell’alba dovevo lavare tutto il pavimento del veliero da prua a poppa e strofinare via la salsedine che si accumulava continuamente.  A mezzogiorno ed alla sera dovevo personalmente servire il pranzo e la cena al comandante e i marinai spesso lo tormentavano prendendolo in giro.


Trascorso più di un mese, dopo aver imparato come si pulisce una nave, come funziona la cucina, il comandante decise che era il momento che imparassi come si governa un veliero; venni affiancato al timoniere e qui imparai i venti, le costellazioni e i punti cardinali, le rotte e tutto quello che è necessario per manovrare un veliero.

Spesso Grimaldi mi guardava compiaciuto, probabilmente gli ricordavo tanto lui tanti anni prima.


All’alba di quella mattina del luglio del 1283 mi resi subito conto che era una giornata diversa. Intanto vidi a distanza una piccola isola dove ci sono molti alberi ma nessuna abitazione e tanti tanti gabbiani che volano e riposano.


All’improvviso sentii la vedetta che urlò: ”Veliero all’orizzonteeeee”. Il comandante prese  immediatamente il comando del veliero e, scrutando scrutando, vide un veliero sul quale  sventolava una  bandiera rossa con al centro un’antica croce bianca: era la Repubblica di  Pisa che puntava dritto su di noi! Subito egli riunì l’equipaggio e comunicò a tutti l’assetto di battaglia. Era arrivato il momento tanto atteso,  ora solo una sarebbe stata la Repubblica dominatrice.


Il mio posto fu accanto al comandante. Pian piano, mentre il Mistral si avvicinava al veliero pisano, vedevamo sempre meglio l’altro equipaggio, anche quello pronto per la battaglia.


Ma quello che mi colpì fu un ragazzo della mia età che, proprio sotto l’albero di maestra, stringendo una sciabola nella mano, mi si mise di fronte. Era un ragazzo alto come me, i capelli biondi lunghi  e due occhi curiosi, azzurri come il mare.


Quando i nostri sguardi si incontrarono,  entrambi riconoscemmo l’amore per il mare. Mi venne  un’idea e, girandomi verso il comandante Grimaldi, bastò solo uno sguardo per  capirsi immediatamente; egli annuì con la testa.

Fu a quel punto che il ragazzo del veliero di Pisa mi lanciò la sfida: “Fammi vedere cosa sai fare”, alzando la sciabola.

Gli urlai: “Aspetta…….ho visto nei tuoi occhi il mio stesso amore per il mare, ho visto tutto ciò in cui anch’io credo. Ho una proposto da farti. Invece di spargere il nostro sangue e quello di altri marinai, potremmo fare una gara con i  nostri due velieri, io e te, una vera e propria corsa di velocità sul mare” – e, indicando l’isola aggiunsi: “ Chi arriverà per primo dopo un giro intorno a quell’isola sarà il vincitore assoluto della battaglia tra le due Repubbliche marinare”.

Al ragazzo di Pisa piacque questa nuova idea e,  sorridendo,  guardandomi fisso negli occhi, accettò la sfida con una forte sciabolata nell’aria.


Entrambi gli equipaggi  deposero le armi, lasciarono i posti di battaglia per prendere posto per una sfida di velocità sul mare, il vincitore sarebbe stato l’eroe della battaglia tra le Repubbliche di Genova e Pisa.


I due velieri  nello stesso tempo spiegarono  tutte le vele, che splendevano  al sole. Il vento le gonfiava, gli equipaggi alzarono nel punto più alto le bandiere,  ognuna con lo stemma della propria città.


Entrambi noi ragazzi prendemmo posto al timone. I comandanti delle due flotte diedero insieme il via a questa gara. I velieri iniziarono a solcare il mare, il vento soffiò nelle nostre vele facendoci correre sul mare. Non sembrava una sfida,  bensì una danza sull’acqua dove le due navi sembravano volare leggere. Noi due forse neanche pensavamo al premio in palio,  avevamo i capelli che sventolavano e  gli occhi che brillavano e sorridevano insieme, concentrati in una sfida di passione.


Ebbero un grande tifo i due comandanti da tutta la flotta delle piccole imbarcazioni, ciascuna con la propria bandiera issata, ma ferme in mezzo al mare ad osservare il “volo dei velieri: quella che poi sarà chiamata per sempre regata”.


La gara fu appassionante.  Subito fu in testa il veliero di Pisa che corse veloce sulle onde, ma dopo più della metà del percorso il Mistral lo raggiunse.

Noi due ragazzi avemmo il tempo di  puntarci lo sguardo uno sull’altro. A quel punto alzai gli occhi al cielo, cercai il sole ed urlai al timoniere: “Vira a destraaaaa!”


Improvvisamente il veliero di Pisa si trovò costretto a fare una veloce manovra per evitare di essere investito,  ma così ora il sole accecò il ragazzo al timone… fu un attimo,  ma quanto bastò  al Mistral per fuggire veloce verso la vittoria accompagnato dall’esultanza di tutta la flotta,  Giobatta Grimaldi compreso che sorrise pieno di orgoglio per quel ragazzo….che gli ricordava come lui era….anzi, meglio….al quale si divertiva a prevederne il futuro.


Il 6 agosto del 1284 c’ero anch’io a bordo di una galea presso le secche della Meloria. Ma quella fu tutta un’altra storia.











Fonti utilizzate:

-       AA.VV., La Liguria paese per paese, Voll. III e IV, Guido Mondani Editore, Genova, 1984

-       Ferrando Ivana, I giochi a Genova, Sagep Editrice, Genova, 1969

-       -Dolcino Michelangelo, I misteri a Genova, Pirella Editore, Genova, 1976

-       Alcuni numeri della rivista Focus Storia

-       Ricerche di storia prodotte nell’anno scolastico 2012-2013

-       Sito http://www.storiamedievale.net

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